"Il Vascello", pagine di cultura: Giardini Cremonesi | Testo di Marida Brignani e Luciano Roncai, foto di Luigi Briselli ed Ezio Quiresi |
Giardini e terrritorio cremonese Testo di Marida Brignani e Luciano Roncai, 1- Un’emozione inaspettata doveva cogliere i raffinati e colti viaggiatori europei quando, fra Settecento e Ottocento, varcavano l’arco alpino per compiere il Grand o Petit Tour alla riscoperta delle vestigia dell’antichità classica e si affacciavano per la prima volta dai poggi delle prealpi sul mosaico variopinto della campagna lombarda, portando negli occhi le fredde cromie delle pianure centro-europee o le sconfinate distese ondulate dei pascoli inglesi, scandite a perdita d’occhio dalle macchie degli alberi che ne definivano i piani di profondità. Si dispiegava innanzi a loro una vasta distesa di appezzamenti ordinatamente coltivati, definiti entro una maglia regolare di confini, di strade e di canali, di siepi e di filari, di alberi, di arbusti e di viti con tutta la ricchezza cromatica delle varietà botaniche ed il grafismo geometrico delle tessiture colturali. E grumi di case e campanili a ritmare le distanze. Poi, da vicino, scoprivano un’agricoltura intensiva, praticata con l’assiduità e la cura minuta del giardino, in cui nulla era lasciato al caso: alberi da frutto in capo ai filari delle viti che spesso cadenzavano le “piane” degli aratori vitati; gelsi, salici, platani o pioppi ordinatamente capitozzati per ricavarne fogliame, paleria o flessibili rami da intreccio. Marcite verdi, tiepide e fumanti anche nei rigidi inverni padani, una capillare rete di canali di adduzione e di scolo a comporre una gigantesca e delicatissima macchina idraulica ed una straordinaria capacità umana di razionalizzare l’uso delle risorse. Un’agricoltura che sotto la spinta iniziale della riforma fiscale imperiale è attuata attraverso l’introduzione del catasto particellare e l’attribuzione a ciascuna unità del valore capitale legato alla sua intrinseca natura piuttosto che al reddito prodotto nonché delle idee innovative di matrice illuministica trasferite e metabolizzate nella realtà lombarda dai riformatori del Caffé, avviava quel processo di trasformazione tecnica e scientifica che avrebbe lentamente e faticosamente portato a risultati di assoluta eccellenza. Una campagna-giardino nella percezione dei citati viaggiatori. Un giardino per le dimensioni contenute e definite degli appezzamenti, l’intensità ed il dettaglio degli interventi, la varietà colturale, la ricchezza dei colori, dei frutti e degli scorci, la continuità dell’impegno: “Tutto l’anno è un continuo lavoro; le viti, il gelso, il frumento, il granoturco, i bachi, le vacche, la vangatura e la messe, il bosco e l’orto danno una perenne vicenda di cure, che desta l’intendimento”. Una percezione certamente relativa quella dei viaggiatori d’oltralpe, suggerita dalle differenti esperienze dei luoghi di origine e spesso diversa dall’analisi, meno poetica e più contingente, di Cattaneo, Jacini, Decristoforis o di Agostino Vimercati per le campagne cremasche, tendenti invece a mettere in evidenza il contrasto fra le potenzialità produttive del territorio ed il ristagno dell’economia agraria schiacciata dal peso di una questione sociale e di una gestione fondiaria non risolte. Ma anche giardino come espressione massima dell’idea di territorio bello e utile, di una campagna coltivata e produttiva come un giardino nelle intenzioni dei riformatori illuminati settecenteschi e nelle sollecitazioni del commissario napoleonico Etienne Siauve che si rivolgeva non solo ai nobili proprietari cremonesi, ma anche alla classe degli affittuari, affinché si impegnassero direttamente nel rinnovo delle pratiche agrarie. Una “terra di promissione” per i governanti austriaci, secondo Cattaneo: “uno di quei campi eletti, in cui l’agricultore fa prova di qualche novella semente”, il luogo ideale dove sperimentare i propri programmi riformatori riservando un ruolo importante ai miglioramenti delle rese agricole. |