I dipendenti della Secondo Vergani in stagione: è il 15 novembre del 1905

Cremona, centro di traffici del Mediterraneo, nel primo medioevo importò un "tu-run" dagli arabi e lo perfezionò


di Cesare Castellani

Ushuaya è una cittadina di circa 15.000 abitanti sopra la quale il cielo assume, per una decina di mesi l’anno, il colore livido e grigio dell’acciaio, ove il freddo e i gelidi venti della Patagonia che soffiano dall’entroterra scandendo dal Puna, annunciano alle navi di piccolo cabotaggio che calano l’ancora nel suo porto, la vicinanza della Terra del Fuoco, ad un migliaio di chilometri. A 54 gradi di latitudine, è la città più meridionale del globo, terra di pochi emigranti, di vasti spazi, ma di piccole case aggrumate intorno al minuscolo approdo che è, con la pesca in Atlantico, l’unica fonte di vita.
Lì, in una strettoia che s’apre sul Porto, i pochi turisti in sosta, possono ancor’oggi scorgere un negozietto pulito e ben tenuto quanto è possibile: è sormontato da un’insegna un po’ sbiadita, ma perfettamente leggibile: «CREMONA». E’ una rivendita di dolciumi e ciò che colpisce il viaggiatore italiano è constatare come la vera specialità di quel pasticcere «australe» sia il torrone, o qualcosa di pretenziosamente simile al torrone che la tradizione di qualche emigrante, certo delle nostre zone, ha portato fin laggiù, probabilmente verso la fine del secolo scorso.
Di strada ne ha fatta il torrone partendo dal medioevo. Era abitudine, nei luculliani pranzi medievali, terminare la lunga teoria delle portate con un dolce fatto di mandorle e miele abilmente amalgamati grazie ad un lungo e complicato processo di cottura, un’abitudine inveterata se è vero che già i legionari romani avevano portato quest’uso a Roma, secondo taluni avendolo imparato a Cremona ove le mandorle arrivavano dal Mediterraneo grazie ai traffici del suo porto e già il miele veniva prodotto in abbondanza con un sistema particolare dagli apicultori che, caricati gli alveari sulle loro barche, li portavano lungo il Po in modo che gli insetti potessero fornirsi di vari tipi di fiori.
Secondo noi gli ingredienti giungevano più probabilmente dalla Sicilia, forse addirittura dalla zona della attuale Avola ove i mandorli godono del clima più favorevole ed il miele Ibleo che vi si produce è considerato il migliore del mondo.
E’ chiaro dunque che il torrone, o comunque un prodotto molto simile, già si faceva da molti secoli in altri luoghi: basterebbe ricordare un famoso ricettario arabo nel quale un dolce molto simile veniva chiamato, appunto “tu -run”, parola dalla quale probabilmente deriva il nome del torrone di casa nostra più che dal “Torrazzo”, secondo la fola mai documentata del pranzo nuziale di Bianca Maria Visconti con Francesco Sforza (una leggenda neppure antica, fu una trovata del 1918 del pittore Massimo Galelli per una scatola della ditta Vergani che conteneva i “Baldesio”, torroncini dedicati alla storia cremonese del medioevo).
Solo verso la seconda metà del XIX secolo apparvero a Cremona fabbriche vere e proprie: la Secondo Vergani aprì per prima i battenti nel 1881.
Nella seconda metà del XIX secolo, il torrone era, con la produzione della seta e della mostarda la più prolifica industria presente in città, ma a differenza della seta la cui produzione andava scemando, quella del torrone, seppure stagionale appariva in costante progresso. I fabbricanti erano una ventina, ma riuscivano a produrre un giro d’affari che si aggirava sulle 400.000 lire annue. Costanti erano i miglioramenti del prodotto e delle confezioni, continua la ricerca, anche se si lamentava l’assenza assoluta in Cremona dell’industria affine: le biade arrivavano da Bergamo, le confezioni da Milano e Piacenza, addirittura da Parigi e da Vienna e Cremona continuava a perdere buone occasioni di guadagno.
Lavorazione manuale, metodi ancora artigianali. Tempi duri e difficili, tempi di uomini rotti ad ogni fatica, costretti ad operare senza limiti di orario.
Il lavoro era stagionale (il torrone aveva un breve tempo di conservazione e del resto, dopo le ferie natalizie, era difficile la vendita): da settembre alla fine di dicembre. Nella maggioranza gli operai addetti alle caldaie erano muratori e imbianchini che, disoccupati durante l’inverno, andavano così a sbarcare il lunario, o talvolta panettieri che, terminato il turno in forneria, alle quattro del mattino, quando iniziava la “cotta” si presentavano in fabbrica a “menare il torrone”. e a racimolare qualche lira in più con cui rimpinguare i loro scarso guadagno.
La lavorazione richiedeva turni orari abbastanza ferrei: la cottura tra le quattro del mattino e mezzogiorno; nel pomeriggio si provvedeva a sistemarlo negli stampi e, una volta raffreddato, a tagliare le stecche; il mattino seguente si incartava, si preparavano le confezioni, si eseguivano le spedizioni.
Alle donne era riservata l’ultima parte della lavorazione, ma era anche per loro una fatica improba e con orari impossibili, gravosi.
I macchinari erano ancora rudimentali, apparivano i primi pentoloni di rame a bagnomaria, ma il torrone andava ancora “menato” a mano. C’erano pure le prime taglierine, ancora manuali e durissime e qualche volta pericolose da manovrare.
La rivoluzione industriale toccò il torrone agli inizi del secolo con la meccanizzazione e la creazione di una macchina speciale: veniva dalla Francia, ove era stata progettata e costruita e rivoluzionò tutto il sistema di fare torrone: si chiamava ”Poêlon à nougat”: era costituita da una bacinella a doppia parete, riscaldata a vapore, ad olio o a corrente elettrica e dotata di due pale agitatrici, naturalmente a velocità variabile.

La storia del ciballo
il torrone dei poveri

Il torrone arrivò tardi sulle mense della gente povera e grazie ad un tipo particolare, il “ciballo”, ancora una vera invenzione dell’industriosità dei produttori cremonesi alIa fine dell’ottocento. Il “ciballo” viene ancora venduto soprattutto dagli ambulanti, sui banchetti delle fiere di paese. Non era il tipico torrone. ma gli si avvicinava molto e, soprattutto, aveva un costo relativo, accessibile alle tasche dei meno abbienti. Le mandorle, anzitutto, vennero sostituite dalle arachidi, molto meno costose, che si cominciava ad importare dall’America. La quantità di miele venne ridotta all’osso a favore di zucchero e glucosio, un pizzico di ammoniaca, che comunque non influiva suI sapore: serviva a sostituire quasi totalmente l’albume d’uovo favorendo il processo di areazione e ren dendolo sufficientemente friabile.
I tempi di cottura furono cosi drasticamente ridotti e la confezione, con la tipica stagnola e le strisce multicolori, quasi totalmente eliminata. Per i venditori ambulanti veniva preparata la “chisòoIa”. un pezzo di torrone schiacciato tra due assicelle per dargli una parvenza di forma e stretto tra due biade. che era forse la forma primitiva in cui il torrone veniva portato in tavola. Gli ambulanti passavano a ritirarlo nelle prime ore del mattino dalle fabbriche e 1o portavano suI mercato. Bisognava anche venderlo in fretta: i tempi di conservazione erano piuttosto brevi, ma il “ciballo” andava a ruba e nei momenti difficili fu proprio questa produzione povera a tenere a galla alcune industrie dolciarie anche famose della città che lo smerciavano sfuso, senza il loro marchio, quasi fosse una vergogna produrlo.

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Una notizia di cronaca nera legata al classico dolce cremonese

Allarme, il torrone di Cremona è avvelenato!

Una ricerca de “Il Vascello” in vista delle celebrazioni di metà novembre - Dal fatto di cronaca si evince anche il quadro della produzione in città alla fine dell’800 - Documento di grandissimo interesse


Il duro lavoro dei menatouron

(Dal Corriere Cremonese 2 dicembre 1868 - Lasciamo al resoconto tutto il gustoso stile giornalistico del tempo)

Un fatto grave che non ebbe luttuose conseguenze, verificossi il 27 Novembre scorso nelle città di Lecco . Sopra tre individui di civile condizione appartenenti alla stessa famiglia, manifestaronsi fenomeni di avvelenamento per aver mangiato del torrone di Cremona qualificato all’ “Italiana”. Il Sindaco di quella città giustamente allarmato, non solo diede in luogo le disposizioni reclamate dal caso per la tutela della pubblica salute, ma con lodevole premura scrisse al Municipio di Cremona dandogli contezza dell’avvenuto e del rapporto inoltrato il giorno dopo dal medico condotto, in cui fra le altre cose è detto “11 torrone di Cremona sia in piccoli che in grandi pezzi, il quale porta scritto sull’etichetta alla Italiana e che ridottl in pezzi presenta i tre colori bianco, rosso-mattone e verde, contiene un principio velenoso quale si è l’arseniuro di rame”.
Alle persone cognite del metodo analitico praticato dai chimici per constatare la presenza dell ‘arsenico e del rame nelle diverse sostanze alimentari, sembrerà azzardoso tale giudizio definitivo emesso il giorno dopo, senza 1’appoggio di una severa ed esatta relazione chimico-analiti-ca qualitativa e quantitativa. Ma ciò che rende veramente strano quel giudizio si è l’aver colpito di ostracismo tutto il torrone di Cremona fatto all’Italiana quasi che da una sola fabbrica od una sola ne esistesse nella nostra città. Ritenuto per vero il fatto dell’avvelenamento (quantunque lettera che abbiamo sott’occhio discorra di semplice in disposizione) , si domanda com’è che nella straordinaria quantità di torrone cremonese smerciato si da oltre quaran ta giorni in tuti te le Città del Regno d’Italia ed all’Estero nessun altro caso di avvelenamento, all’infuori di quello verificatosi in Lecco sia avvenuto, quando realmente contenesse dell’arseniuro di rame? Non sarebbe stato miglior consiglio, per i riguardj voluti a questa nostra speciale industria, di limitarsi a segnalare la Ditta che ebbe a spedire a Lecco il torrone, causa dei rimarcati gravi accidenti, anziche colpire tutti i fabbricatori della qualità di torrone detto all’Italiana?
Lasciando a parte queste considerazioni, torniamo al fatto.
La Giunta Municipale di Cremona in seguito all’avviso ricevuto il 29 alle 3 pomeridiane preoccupandosi a ragione delle gravi conseguenze che ne potevano derivare alla Salute Pubblica ed al ‘Industria Cittadina, radunò immediatamerlte la Commissione Sanitaria Municipale, la quale deliberava di procedere tosto alla visita di tutte le fabbriche di torrone esistenti in Cremona onde conoscere il modo di preparazione del torrone detto all’Italiana ed esaminare particolarmente le sostanze coloranti impiegate alla sua confezione.
Noi ci affrettiamo a pubblicare i risultati che ci vennero gentilmente comunicati, per tranquillizzare i nostri concittadini, e per persuadere i committenti, italiani ed esteri chi nell’incriminata qualità di torrone, nulla vi ha che possa arrecare danno alla salute di quelle nersone che fanno uso di questo delicatissimo mandorlato.
Venti sono i fabbricatori di torrone che si trovano nella città di Cremona; di questi, otto preparano anche quello che porta il nome “all’Italiana” ; gli altri dodici non fanno altro uso che di essenze (Menta Rosa, Cannella, Vaniglia ecc. ).
Degli otto che confezionano il torrone all’Italiana, quattro fanno uso dei cosidetti ginevrini colorati, escluso il verde, che ora sembra abolito nel commercio; e quattro danno essi stessi il colore al zucchero che in pezzetti quadrati forma parte e costituisce propriamente il torrone all’Italiana od alla Francese come dicevasi prima, e come tuttora dicesi da taluno.



Le Ditte che fabbricano di questo torrone sono: Ingiardi Luigi , rappresentato da Carasi Antonio - Curtarelli Gaetano, farmacista Ratti Andrea - Moncassoli Giuseppe farmacista. I colori adoperati dalla ditta Ingiardi sono: il rosso od amaranto, ottenuto coll’uvetta (Fittolacca) , il verde ricavato dagli spinaccii, il bleu dato dal prussiato di ferro.
La Ditta Curtarelli ricava il verde dalla rata ortensia; il giallo dal croco o zafferano, il rosa dallo spino cervino; il rosso dallacoccinilia; ed il solferino dalla cocciniglia pura.


Elogio in dialetto cremonese
del torrone

O doulz de mel e armandoule,
zeùcher, droghe e ciare d’of,
me te amiri, me te veneri,
quand te vedi o passi aprof:
te see tro n’a roba bouna!
te see ’l vanto de Cremouna!
...En Nadal senza touron
l’é ’n Nadal ben da coujon!

(poesia di Giovanni Lonati)

La Ditta Ratti forma: il verde col croco ed azzurro di Berlino; il rosso coll’uvetta ed il giallo col croco. La Ditta Moncassoli ricava solo il rosso dall’uvetta, e volendo aggiunger altri colori fa uso dei ginevrini.
Questi sono i colori adoperati dai nostri fabbricatori di torrone all ‘Italiana. Ora siccome i ginevrini sono fabbricati a Milano dalla Ditta Lombardi e Macchi, e certamente non contengono alcuna sostanza nociva, è facile dedurre che dal torrone fabbricato ora in Cremona non sarebbe possibile di ricavare dell’arseniuro di rame. Ciò non pertanto basta a spiegare il fatto accaduto a Lecco, che vogliamo credere non affatto immune da esagerazione; dobbiamo dire che la Ditta Ingiardi nei primi giorni che fabbricò il torrone all’Italiana, ebbe a confezionarlo con zuccherini colorati avanzo di quelli comperati a Milano nello scorso anno. Se tali zuccherini colorati fossero stati confezionati coi colori d’anilina, contenenti indubbiamente dell’acido arsenico, è certo che il colore verde dei medesimi formato coll’aggiunta dell’acetato di rame, spiegherebbe sufficientemente la presenza dell’arseniuro di rame nel torrone spedito tempo fa a Lecco .



La confezione delle stecche

Noi però confessiamo di non essere tranquilli sul giudizio dato dal medico di Lecco sotto l’impressione dell’avvenuto , ne attendiamo uno più pacato dalla Commissione Sanitaria di quella Città e dalla Nostra che procedettegià a severissime indagini.
Ad ogni modo sembra fin d ‘ora che ammesso il fatto, debbasi attribuirlo a mera accidentalità, od imprevidenza, di un solo fabbricatore e quindi sarebbe ingiusto che avessero a soffrirne gli altri, i quali colorando questo Mandorlato con sostanze innocue tratte quasi esclusivamente del regno vegetale, seguirono i dettami dell’Igiene Pubblica.

(Nei fatti, il guaio fu poi chiarito. Era andata proprio come era stato supposto dal “Corriere Cremonese”, in una partita limitatissima della ditta Ingiardi. E la vendita del torrone non subì le conseguenze negative temute dai produttori, neppure in quel 1868 al centro dello scandalo).





Immagini di inizio novecento: l'incartamento del torrone

Lo si regalava in grandi di Spagna per ingraziarsene i favori

Cremona, nell'età comunale era centro convulso di traffici e commerci, quasi un porto di mare: vi approdavano ogni giorno decine di navi che recavano broccati e tappeti, sale, spezie e i più raffinati prodotti d’oriente e dell’area mediterranea: le mandorle di Sicilia, il miele d’Iblea, i pistacchi dell’Anatolia, i fichi secchi d’Illiria, merce destinata ai grandi mercati dell’Europa centrale e, attraverso la Postumia, alle zone del Nord. Naturale che qui fosse conosciuta la preparazione di una leccornia che i molti mercanti stranieri abitualmente dimoranti in città avevano fatto conoscere in loco e i cui ingredienti erano facilmente reperibili proprio perché oggetto dei loro intensi traffici.
Quando, nel Medio Evo, era già ben consolidata la tradizione del torrone di Cremona, si fece pure largo la produzione in altre zone d’Europa: la Francia propugnava il «Nougat di Montélinar», prodotto in una ben circoscritta zona del Sud Est e in auge tuttora come indicazione di qualità (deve essere prodotto assolutamente col 28% di mandorle pelate e tostate, il 2% di pistacchi, ecc...) mentre la Spagna, che aveva ereditato il segreto delle ricette sia dagli arabi sia direttamente nei secoli della sua dominazione a Cremona, produceva e diffondeva i suoi «turrones», reclamando che il nome torrone derivasse dal verbo latino “torrere”, ovvero “turrar” , che significa arrostire, modificato nello spagnolo “turròn”..
Tutti i tipi di torrone prodotti nelle varie parti del mondo possono comunque esser considerati come derivati da questi dolci tradizionali. Pure quelli rivestiti di cioccolato, che attualmente, e da parecchi anni ormai, godono il favore del pubblico. Molte varianti hanno avuto origine da una ragione pratica: proteggere il prodotto, molto sensibile all’umidità con il cioccolato. In particolare l’idea venne praticata da un pasticcere americano, di nome Mars il quale si dedicò alla preparazione di soffici bastoncini di torrone ricoperti di cioccolato e contenenti un’alta percentuale di latte in polvere. Questo tipo di dolce venduto sotto il nome di «Milky Way» divenne estremamente popolare: dopo la guerra raggiunse l’Europa ed è tuttora apprezzato, se pure con molte varianti, col nome del suo antico inventore “Mars”.

Del torrone si trova menzione in documenti autentici, le Litterarum del 1543-45, più esattamente nelle numerose note di spese della Comunità di Cremona in occasione d’ogni arrivo e visita di personaggi illustri. Era il periodo della dominazione spagnola e la ricchissima Cremona pagava, tra i mille tributi dovuti alla Corona di Spagna, anche un omaggio in torrone.
Il torrone, prima del 1543 non è mai nominato: si parla invece di altri dolciumi come l’armandolato, la cotognata (in vasetti e scatole), miele, zucchero, scatolini di zelo, dorato e non dorato.
Le prime tracce sono riscontrabili nella chiusa di una lettera dell’Oratore cremonese Bartolomeo Oxio inviata da Milano ai Presidenti della Comunità di Cremona. Si era in prossimità delle feste natalizie e l’ Oxio consigliava ai destinatari della sua missiva di «dar commissione al speziaro dell’Incoronata (i farmacisti furono i primi fabbricanti di torrone in città) di numero 240 scatole di copeta, Toron de una libra l’una (12 onze) al computo de soldi 5 e dinari 6 per libra» da distribuirsi alle prime autorità della Camera Regia di Milano (senatori, gran cancellieri e così via). Purtroppo da nessuna parte si riesce a capire cosa fosse esattamente la copeta e quale la differenza di questo dolce che pur si faceva comunque con “zuccaro e miele”, rispetto al torrone, anche perché si confondono i due termini sovente usati insieme.
Il 26 dicembre del 1552 mentre si scrive a Pietro Martire Tinto dell’invio di «scatole n. 254 di Torone», nella lista annessa non lo si chiama più torrone, bensì copeta. E lo stesse avviene in un’altra lettera del 30 dicembre dell’anno precedente (come si può notare dalle date, si parla sempre di torrone in vista delle feste di Natale e Capodanno).
Ancora, il 5 febbraio del 1547 i Presidenti scrivevano ad Anselmo Tinto ed al conte Ponzino Ponzone: «havemo ordinato di mandar a Milano un cavallo (sic!) de Torono, V.S. lo dispenseranno come gli parerà fra quelli signori et secretari ecc.». A loro volta il Tinto ed il Ponzone il 12 febbraio dell’anno seguente, 1548, accusavano ricevuta ai Presidenti della «copeta et Torrone qual fu in tutto scatole 153 in minor numero Torrone et fu difficile a distribuir a tutti questi signori però conviene che per lo avvenire non incresci a quella Mag. mandarne maggior summa e di quello di Soncino e a tempo debito che gli verrà maggior onore.» Ancora il 30 dicembre del 1551 «scatole di torone venivano distribuite ai signori della Camera Regia di Milano secondo gli ordini impartiti dai presidenti di Cremona al loro Oratore - risultando che si era speso per il dazio a Lodi e Milano, per il Torone: L 1 soldi e dinari 2».
Nel 1552 la quantità di torrone spedita a Milano fu ancor più grande. Si mandarono «scatole 240 di Torrone» da distribuirsi «secondo il solito et costume nostro» per salire ancora nel 1566 a «scatole 314 de torono».
Oltre alle 314 scatole di torrone, per la cronaca, i presidenti di Cremona avevano spedito «N. 49 capi de salami, vasetti (di cotognata) et cervelati et copazzi».
La spedizione di tutta questa merce aveva il suo perché. L’Oratore era latore di lettere importanti dei Presidenti e gli era fatto obbligo di presentare «tre hore prima i doni al Cardinale di Trento, governatore dello Stato....quelle scatole che sono signate di sopra CAR quali sono fassi numero 10 de scatole numero 4 l’uno, eppoi le lettere.» Così andavano le cose durante la dominazione spagnola che, insieme ai molti cervelli (Jannello Torriani, Sofonisba Anguissola, tanto per citare i più noti, si portò via da Cremona pure l’abitudine di confezionare il torrone grandemente apprezzato alla corte di Madrid e quindi fabbricato laggiù.
Nei secoli successivi il torrone continuò ad esser presente sulle mense dei nobili e cominciarono a sorgere produttori a livello quasi industriale: i farmacisti (per essere abbondantemente forniti di spezie e dell’attrezzatura idonea: pentoloni, mestoli e così via), poi i droghieri e infine i pasticceri.



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Dom, 6 nov 2005