Lucilla Merlini non era stata neppure iscritta al PNF o al PFR: pagò per essere la sorella di Mario Merlini, odiato bullo di quartiere, giustiziato in piazza Marconi
La fucilazione nel memoriale del cappellano, don Luciano Zanacchi
Lucilla Merlini era sorella di Mario fucilato il giorno prima in Piazza Marconi dove fu legato ad una barella e appoggiato al muro di Palazzo dell’Arte in fin di vita, perché si era fatto hara-kiri in Curia dove aveva cercato rifugio e da dove era stato invitato ad allontanarsi dal Vescovo Cazzani . Alla fucilazione fu costretto ad assistere il figlioletto di Mario Merlini e un altro fratello dello stesso Merlini che venne poi anche obbligato a seguire la esecuzione di Lucilla.
Lucilla Merlini non era mai stata iscritta nè al P.N.F. nè al P.F.R. Su di lei si era scatenata l’avversione nei confronti del fratello, un bullo di quartiere. Venne abusivamente fermata in strada da un certo Carlo Ponzoni il 27 aprile e tradotta in carcere in via Jacini ove trovò, con altre donne “fasciste”, anche la cognata, moglie del fratello Mario Merlini.
Lucilla, non si preoccupava molto molto di sè: “Sarà questione di qualche giorno... ” : diceva alle compagne di carcere. Non sapeva della fucilazione di Mario. Era stata tenuta nascosta a lei e alle altre carcerate che giunsero senza scosse morali e senza alcun interrogatorio, nè altre comunicazioni di sorta, alla mattina del primo maggio.
Era circa le quattro quando un camion si arrestò davanti al carcere di via Jacini. Il cappellano del carcere, anziano, aveva delegato all’assistenza dei condannati a morte, un giovane sacerdote, Luciano Zanacchi. Racconta Carlo Azzolini che era in carcere e assistette alla partenza dei condannati: “«Suonavano le 4 o le 5 al vicino campanile di Sant’Agostino quando un camion rallentò la marcia e si arrestò davanti al portone. Tutto era perfettamente intuibile. Stridere di catenacci, passi svelti nel corridoio e poi un nome, il primo: Ruggeri. Era accucciato vicino a me: aveva pensato tutta la notte ai suoi sei figli .... Poi ancora altri nomi in altre celle. Poi una lunga pausa. Vidi passare i prescelti dalla “spia” della porta della mia cella. La luce fioca ed ancora azzurrata di una lampada dava a quelle figure la cadenza di una scena tragica e misteriosa. Li riconobbi quasi tutti. Ruggeri si arrestò un momento davanti alla porta e riuscì a passarmi un biglietto per sua moglie e per i suoi figli e si accomiatò dicendo: “Ragazzi vi saluto, ci ammazzano”. L’ultima parola gli si strozzò in gola. Nessuno ebbe la forza di parlare.”.
“L’addetta alla custodia del reparto donne è invitato a fare scendere la ” Merlini ”; ma poiché nella stessa cella di Merlini ce ne sono due, loro chiedono che venga precisato quale delle due è la chiamata. La custode, dopo una breve assenza, ritorna precisando che la chiamata è la signorina Lucilla Merlini. Lei, sempre tranquilla, chiede il motivo della chiamata a quella strana ora, le viene risposto con una pietosa bugia e viene accompagnata giù nell’atrio. Qui si incontra con il gruppo degli uomini che intuiscono il loro destino ed esprimono il loro stupore per la presenza della donna; ma Lucilla risponde scherzosamente, non credendo alle loro parole”.
Mario Merlini
Sul precipitare della tragedia, ecco la testimonianza scritta di don Luciano Zanacchi:
“Io sottoscritto, don Luciano Zanacchi, dichiaro quanto segue:
Verso le ore 3 del I maggio 1945 alcuni Partigiani a me sconosciuti sono venuti a pregare il Cappellano delle carceri don Andrea Pescini di volersi recare alla Caserma del Diavolo per dare i conforti religiosi ad un gruppo dí fascisti condannati a morte. Essendo don Pescini molto avanti in età ed un po’ infermo, mi pregò affinché io stesso mi recassi al luogo del supplizio. Fui accompagnato a piedi alla Caserma situata alla periferia della città. Qui da un Partigiano fui presentato a due persone (un giovane ufficiale della milizia ed un uomo anziano).
A costoro offersi la mia opera sacerdotale. Entrambi erano all’oscuro di tutto. Terminato questo primo triste ufficio, vidi partire dalla caserma un autopullman diretto alle carceri di via Jacini per prelevare, mi si disse, altri condannati. Desideroso di essere accanto a quei fratelli per prestare loro conforto, salii anch’io sull’automezzo che, anziché sostare in via Jacini si fermò davanti alla Questura. Fui fatto scendere, fui accompagnato all’ufficio del capo del gabinetto (il nome ora mi sfugge). Una persona alta, che mi ricevette con altrettanta cortesia e che mi pregò caldamente di non recarmi in carcere per non portare turbamento tra gli imputati. Non mi restò che ritornare alla Caserma del Diavolo.
A piedi, in fretta, temendo di non arrivare in tempo e di trovare quindi delle sorprese, mentre l’autopullman si dirigeva in via Jacini, attraversai la città.
Pur passando davanti al Palazzo Vescovile e desiderando salire per chiedere al superiore consiglio (saranno state le ore quattro e mezzo) per il motivo sopra esposto (paura di arrivare in ritardo e trovare sgradite sorprese, una fucilazione senza Sacramenti, per esempio), mi diressi alla Caserma, riservandomi di telefonare quanto prima in Vescovado.
Nella foto: momenti di lutto, funerali di partigiani in piazza del Comune
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Pagina aggiornata alle ore 20:14:44 di Martedì, 4 maggio 2004